Ho deciso di tenere un diario del mio lavoro nell'orto, emulando così la mia musa ispiratrice, Pia Pera.
Emulare non è il mio forte. Non mi piace proprio l'idea di fare qualcosa che hanno già fatto gli altri.
L'ossessione dell'originalità a tutti i costi è una cosa che non so se mi appartenga di mio o sia stata appresa. Fatto sta che l'ho interiorizzata al punto di non farlo neanche apposta. Se una cosa l'ha già fatta qualcun'altro per me ha già perso di fascino.
In questo caso, però, ha una sua utilità, e questo la giustifica.
In più decido di rompere un tabù che avverto: quello di non dire mai che una cosa che si fa è buona, in una sorta di modestia castrante.
Voglio liberarmi di questa cosa e comunicare.
In fondo, se qualcuno che prima di me ha tenuto un diario del proprio orto ed è stata di ispirazione, perchè anche io non potrei raggiungere qualcun altro?
Mi piacerebbe sapere che qualcuno ha scoperto qualcosa che lo fa sentire bene solo perchè io ho fatto il piccolo sforzo di condividere la mia esperienza.
Insomma, per tagliare questa introduzione un po' pallosa, ho deciso di darmi all'orticoltura.
E' una cosa a cui sono arrivato quasi per chiusura del cerchio. Come se alla fine dovessi arrivare qui, come se avesse senso per me fare questo.
In un momento di crisi, un momento in cui mi stavo guardando dentro per capire che direzione prendere, questa consapevolezza mi è piovuta addosso.
Io ho sempre teso ad un rapporto con la terra.
Quando da piccolo aiutavo mia nonna nel suo di orto.
Quando poi, più grandicello me n'ero fatto io uno di mio.
Quando addirittura durante gli anni universitari finivo con il tentare (fallendo) di coltivare pomodori in vaso in un terrazino del centro di Perugia.
All'improvviso è come se avessi visto una cosa che avevo sempre avuto davanti gli occhi e che non avevo mai notato.
Come se avessi messo uno di fianco all'altro e sommato tutti i momenti di felicità e spensieratezza con le mani sporche di terra, i pantaloni che sanno di "verde" e di pomodori. E ho visto cosa dovevo fare.
Il libro di Pia Pera, "L'orto di un perdigiorno", è stata solo l'ultima spintarella di cui avevo bisogno. Poi tutto il resto era li, pronto.
La terra. L'inizio della stagione. Dovevo solo metterci la buona volontà.
E oggi ho iniziato. Sono partito per un viaggio stanziale. Dopo tanti voli, aeroporti, lingue, case, persone.
Adesso siamo io e la terra.
E ho quella sensazione giusta, come quando ci si rende conto di essersi innamorati.
Ho iniziato a riappropriarmi della mia relazione con la terra.
Ho potato l'alloro piantato alla mia nascita, cresciuto troppo e selvaggiamente, disordinatamente.
Una crescita quasi metaforica volendo vederla così.
Il mio gemello vegetale, di cui nessuno si è preso cura per anni. Lasciato là. Dimenticato.
Ho cominciato da quello. L'ho sfoltito, l'ho pulito.
Era come se prendendomi cura di lui vedessi gli effetti riflessi su me stesso.
Poi ho iniziato a vangare, aiutato da Damiano.
Abbiamo vangato due dei sei settori che intendo preparare, 6x1,5m. C'è voluta tutta la mattinata più un'ora abbondante nel pomeriggio per finire il lavoro, zappare le zolle più grosse, rastrellare un po', battere il sentiero.
Sono a pezzi e mi fanno male le mani, ancora quelle di uno studente universitario, dove però stasera vedo arrossate le zone doloranti che potrebbero potenzialmente diventare callose.
Mio nonno, impegnato nel suo giardino, confinante con il mio, a sistemare le fascine di rami potati dagli alberi da frutto, ogni tanto faceva capolino per vedere come buttava da me. A fine giornata mi ha chiesto sornione se, allora, mi piacesse lavorare la terra. Gli ho risposto di darmi un po' di tempo prima di vedermi stremato, che ero ancora entusiasta e al primo giorno.
"Il primo giorno" - mi ha risposto - "ti ammazza".
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